Missinismo? No grazie.

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Antonio Grego
view post Posted on 28/10/2007, 14:26 by: Antonio Grego




Nome: MSI - Paternità: SIM

Franco Morini

"Aurora", n. 44, 1997



Il documento 1/97 pubblicato a cura della FNCRSI, contiene una ampia
analisi con relativa critica alla genesi involutiva che ha
influenzato più o meno tutta l'area neofascista a partire dalla
sconfitta del '45. La premessa a tale documento recita testualmente
che: «Fondato per continuare la RSI, il MSI divenne presto strumento
dell'antifascismo. Venuta meno tale funzione lo strumento è stato
messo da parte. Chi, come noi, prese parte alle prime riunioni e ai
primi "giornali parlati" tende a respingere l'ipotesi (ancorché
verosimile, ma priva di concreta dimostrabilità) che il MSI sia
sorto dalla iniziativa promossa dal Viminale al fine di incanalare
in un alveo prestabilito la diaspora dei "repubblichini" sbandati e
pericolosi».

A questo proposito avviene che, nel battere strade periferiche di
storia locale, siamo inciampati del tutto casualmente in sentieri
imprevisti che a percorrerli portano dritto nella selva (davvero
oscura) da cui ha tratto origine l'ex-MSI. Ciò a premessa che
l'intreccio della ricerca effettuata non parte da tesi precostituite
ma è piuttosto il frutto, diciamo pure selvatico, di una pianta
incontrata, casualmente, nel campo delle ricerche sul fascismo e
neofascismo a Parma. Qui abbiamo colto il capo di alcuni fili
dell'intreccio, anche perché molti tra i fondatori occulti o palesi
del MSI come Augusto Turati, Romualdi e perfino Almirante, sono nati
o hanno costruito le basi della loro carriera politica nella zona di
Parma.

Nel passare all'esposizione dei rari fatti riscontrati, si deve
necessariamente partire al largo per cogliere l'esatta essenza dei
personaggi e le loro trame. A partire dal più importante, cioè
Romualdi, il quale, da direttore della "Gazzetta di Parma", divenne
nell'autunno del '44 il vice di Pavolini. Per quanto riguarda
strettamente la sua permanenza a Parma, vi è da dire che Romualdi si
dimostrò fin dall'inizio un «duro e puro» del nuovo corso
repubblicano. Si comincia dalla prima rappresaglia effettuata nel
febbraio '44, che, contro il parere del Federale Carbognani, da lui
viene attivata facendo intervenire una squadra di fascisti dalla
vicina Reggio Emilia. (1) Il federale Carbognani, per protesta
contro la rappresaglia che non condivideva, si dimetterà dalla
carica per arruolarsi fra le truppe combattenti della RSI lasciando
che in tal modo Romualdi ne approfitti per prendere il suo posto
nella carica di Commissario federale.

Si noti che le vittime dell'azione repressiva non erano certo
antifascisti di spicco, tutt'altro; avevano solo la disgrazia di
rispecchiare una certa consorteria borghese-capitalista già
pesantemente bollata alcuni giorni prima in un fondo
sulla "Gazzetta" di Romualdi. (2) Nonostante la chiara relazione fra
l'articolo pubblicato e la scelta delle vittime designate, alla fine
della guerra vennero incolpati solo il Capo provincia di Parma,
Valli (poi assolto) e il federale Carbognani che nel frattempo era
perito nel conflitto. Anche Romualdi venne condannato a morte in
contumacia dalla Corte d'Assise Straordinaria di Parma, ma per
un'altra rappresaglia, effettuata in Piazza Garibaldi l'1
settembre '45.

A novembre, Romualdi viene nominato vice-segretario del PFR, e
quindi deve lasciare la città per trasferirsi in Lombardia. Egli
mantiene peraltro stretti rapporti con la città di Parma,
continuando a firmare come direttore del quotidiano cittadino. A
Milano, Romualdi trovò sistemazione in via Manzoni, 10 (Palazzo
Crespi) insieme ad una piccola corte di parmigiani fra cui
figuravano la segretaria Paola Ninci, l'autista Bertani, il Sotto
Tenente della B.N. Scandaliato, il dottor Mattioli e infine il
Tenente degli Alpini, Nadotti.

Il Tenente Gianni Nadotti, come venne poi accertato, era un
pericoloso infiltrato del SIM badogliano. Scrive a posteriori il
Nadotti in una sua relazione ufficiale sull'attività svolta in seno
al SIM: «febbraio '44 - prendo contatto con Don Paolino Beltrame
quattrocchi emissario del SIM dello S.M. del R.E. per la provincia
di Parma; con cartolina precetto vengo richiamato alle armi nell'E.
R. (Esercito repubblicano - N.d.R.); mi rivolgo a Don Paolino
dichiarandogli di essere fermamente deciso a non presentarmi e
chiedendogli indicazioni per lasciare la città; Don Paolino mi
esorta invece a rispondere alla chiamata essendo che potrei essere
di più valido aiuto come Ufficiale dello E. R. che come civile; Don
Paolino mi autorizza a prestare, con riserva mentale, giuramento di
fedeltà alla RSI. ( 3 ) (...) gennaio '45 - si presenta per me la
possibilità di essere trasferito a Milano quale ufficiale di
collegamento alla Direzione del PFR; sottoposta la questione al C.P.
e a Don Paolino quale capo della missione "Nemo" per la maglia di
Parma questi ritenendo opportuno che io occupi il nuovo posto, mi
ordinano di accettare l'incarico in data 13 mi trasferisco a Milano
ove mi viene affidato il Comando dell'autoparco del PFR; a Milano
tramite Don Paolino entro in contatto col capo Riccardo De Haag
(Mario Rossi-Fausto-Alpino) vice comandante della Piazza di Milano,
vice capo rete Nemo e dopo la liberazione primo vice questore di
Milano; ho la possibilità di controllare la corrispondenza del PFR e
i movimenti degli esponenti del partito stesso». (3)

In realtà Nadotti spiava la corrispondenza e i movimenti degli
esponenti fascisti, più ancora che dall'autoparco, per mezzo della
stessa segretaria di Romualdi, Paola Ninci, con la quale convolerà a
nozze proprio a Milano nei primi mesi del '45. A fine marzo il S.D.
di Parma porta un grave colpo alla rete clandestina antifascista
della città; in questo contesto viene a galla anche il doppio gioco
del Nadotti, che viene pertanto reclamato dalla polizia tedesca. Per
Nadotti la situazione sarebbe disperata se non accorresse in suo
aiuto lo stesso Romualdi, che invece di consegnarlo ai tedeschi lo
fa mettere sotto la tutela del Col. Volpi della GNR. Viene, è vero,
denunciato al Tribunale di Guerra, ma solo per -riportiamo
testualmente- aver «tentato ripetuti contatti con esponenti del
predetto comitato sedicente di "liberazione" al soldo del nemico».
(sic!) (4)

A voler essere proprio cavillosi, a carico del Nadotti vi era ben
altro, a cominciare dal suo incarico di uccidere alla prima
occasione propizia lo stesso Romualdi. Anche se, come afferma nel
suo memoriale Nino Scandaliato: «... con varie motivazioni il
Nadotti riuscì sempre a convincere i suoi "amici" ad attendere
momenti più propizi. Probabilmente, frequentandolo, Nadotti comprese
ciò che Romualdi faceva o tentava di fare per la Patria e non si
senti più l'animo di portare a termine la missione che gli era stata
affidata». (5) Resta da sottolineare che in data 23 aprile '45 il
Nadotti dichiara di essersi tranquillamente «allontanato» dalla
caserma della GNR che lo aveva in custodia, anche a questo fatto non
pare estraneo il passaggio a Parma, proprio in quei giorni del suo
ex-comandante, Romualdi.

Con tutto ciò siamo giunti alla drammatica fine della RSI, i cui
termini non sono esenti dalle gravi responsabilità di Romualdi. Il
25 aprile, Romualdi incontra Mussolini in Prefettura subito dopo
l'incontro-scontro all'Arcivescovado e, come lui stesso ci racconta
nelle memorie postume: «... io gridai per lui l'ultimo saluto: A
noi! Mi guardò con un affettuoso sorriso: "Romualdi, a domattina a
Como". Fu l'ultima volta che lo vidi». (6) L'appuntamento a Como non
era certo fra le più probabili previsioni, in quanto questa tappa
era piuttosto eccentrica rispetto all'unico progetto alternativo
alla difesa ad oltranza di Milano, cioè il ridotto in Valtellina. A
questo punto non si spiegherebbe, si fa per dire, il tempismo col
quale furono allertati i vari servizi segreti nemici (OSS, SIM)
dislocati in Svizzera, i quali già nella mattinata del 26 aprile
avevano inviato a Como i loro agenti già muniti di regolari
credenziali delle autorità alleate per trattare il passaggio dei
poteri (resa) con i fascisti. (7)

Proseguiamo per tappe cronologiche. Alle prime ore del mattino parte
da Milano in direzione di Como, dove giungerà circa alle 8 del
mattino, la colonna di Pavolini e Romualdi composta da 5.000 Camicie
Nere trasportate da circa 200 camion, fornite di armamento leggero e
pesante. Mussolini e il suo ristretto seguito erano giunti da Milano
diverse ore prima; ma il Capo provincia di Como -che era già passato
agli ordini del CLN- lo convinse a proseguire affermando che per la
sua relativa scorta la città non era affatto sicura. Sicché, quando
iniziò il concentramento su Como di Pavolini e delle altre colonne
il movimento nel Nord, il Duce si trovava a poche decine di
chilometri, nella zona di Menaggio. Saltato l'appuntamento, Pavolini
s'affanna avanti e indietro sul lago di Como, prima per rintracciare
la colonna Mussolini e poi per mettere in salvo in Svizzera la sua
amante. Romualdi dal canto suo preferisce rimanere a Como; per
organizzare, dice, le altre forze che stavano convergendo sulla
città.

Durante la giornata del 26, sia tramite il Prefetto che il vice-
federale di Como, giungerebbero proposte di resa che, pare,
sarebbero state riferite anche a Pavolini. Poi improvvisamente con
la notte la situazione sembra divenuta incontrollabile. Erano le tre
della notte del 27 aprile, quando Pavolini lasciava Como quasi solo
per raggiungere Mussolini. Più o meno alla stessa ora, Romualdi
incaricava il cappellano militare Don Russo e il federale di
Mantova, Motta, di firmare un «accordo» con gli esponenti
antifascisti a cui era stato perfino concesso di insediarsi nella
Prefettura (di fatto già un passaggio d'autorità). Così mentre
Mussolini attendeva con sempre meno speranze la colonna Pavolini, da
parte sua Romualdi trattava la resa -perché di questo si trattava-
delle forze fasciste, che dopo l'allontanamento di Pavolini
dipendevano ormai solo da lui.

Sarà Mino Caudana che negli anni '50 raccogliendo varie
testimonianze sui fatti di Como, poi riportate nell'opera "Il figlio
del fabbro" svelerà incidentalmente al pubblico tale coincidenza fra
la partenza di Pavolini e la resa del suo vice. Romualdi, unico tra
i sopravvissuti a rifiutare fino alla morte il suo contributo
memorialistico, questa volta volle intervenire dalle pagine della
sua rivista "l'Italiano" per rettificare quanto riportato da Caudana
circa i fatti del 26-27 aprile. (8) Significativamente, nel caso in
questione, fu la prima volta che Romualdi interloquiva
sull'argomento, che notoriamente non era di suo gradimento. Difatti
la tesi di Romualdi è che tutto quanto è successo fra Como e Dongo
si deve unicamente al «mancato appuntamento» nella città di Como.
Insomma la responsabilità ricadrebbe su Mussolini o meglio chi lo ha
consigliato di spostarsi di qualche chilometro avanti sul lago.

«Pavolini non promise nulla di quanto non fosse vero. Se il gruppo
del governo non fosse stato male consigliato ad abbandonare Como nel
corso della notte, contrariamente a quanto stabilito, alle otto del
mattino del 26 a Como, Mussolini avrebbe avuto a disposizione più di
tremila uomini». (9) A parte che gli uomini disponibili a Como
secondo la totalità delle fonti, Romualdi escluso, erano più di
cinquemila, senza contare le altre colonne che ivi stavano
convergendo, riportiamo a mo' di risposta quanto scrisse in
proposito lo Spampanato:

«Ripeto che l'errore più grosso si commette a Como il 26 mattina.
Una colonna di 5 mila nomini, ben armati, tutti autotrasportati, con
numerosi pezzi, con abbondanza di armi leggere, ancora con il morale
alto, e che potrebbero profittare della situazione generale quasi
tranquilla si ferma alla prima tappa invece di accelerare verso la
sua destinazione. Una fermata sarebbe plausibile se a Como si rosse
ancora trattenuto Mussolini. Ma Mussolini ha proseguito nella
nottata, ha lasciato detto per la colonna di raggiungerlo: e del
resto Pavolini e gli altri comandanti sanno che il Duce non potrebbe
fare a meno di loro, messosi in marcia a sua volta con poche armi e
con una esigua scorta. Se le Brigate partigiane non sono ancora in
scena lo saranno da un'ora all'altra, e in quel caso diventerà
difficile spostarsi, e più difficile evitare che Mussolini resti
sopraffatto coi suoi pochi uomini tagliati fuori da ogni rinforzo».
E aggiunge: «Ma anche ammesso che il percorso possa essere
contrastato, una forte colonna -come quella di Milano- con mezzi di
artiglieria, ben comandata e soprattutto decisa ad arrivare, avrebbe
avuto perdite, ma si sarebbe spianata da sé la strada fino a
destinazione. (...) L'alt a Como è assurdo, ma più assurdo che si
prolunghi tutta la giornata del 26 e ancora oltre». (10)

Per quanto riguarda la resa, Romualdi così si giustificava: «... fu
solo verso le 11 (le 23 del 26 aprile - N.d.R.) che privi di notizie
e non vedendo ancor giungere nessuno (riferimento a Mussolini -
N.d.R.) fui pregato dai miei collaboratori (?!) di prendere
direttamente l'iniziativa per concordare una tregua, un patto, un
accordo, qualcosa che riguardasse l'ordine in tutta la zona». (11)
Non risulta, fra l'altro, che almeno a Como per tutta la giornata
del 26 si fossero avuti problemi di ordine pubblico da parte
antifascista, mentre i fascisti peccavano semmai nel senso inverso
di una ingiustificabile catalessi, sia pure indotta ad arte da certi
loro comandanti.

Prosegue comunque Romualdi: «Così nacque, dopo laboriose trattative
svoltesi in prefettura, la famosa tregua d'armi il cui testo è
pressappoco quello pubblicato da Caudana ecc ...». (12) Resta magari
d'aggiungere che nel testo pubblicato da Caudana come in quello
dello Spampanato ed altri ancora, il termine «tregua d'armi» -posto
che si fosse mai combattuto- non figurava assolutamente, essendo
scritto invece a chiare lettere che si trattava di «resa a carattere
militare» in mano alleata. Perciò la tregua, che in realtà impegnava
solo le forze fasciste, si riferiva al periodo d'attesa -stimato in
non più di quattro giorni- per darsi agli americani. Proprio in
attesa di ciò i fascisti, secondo l'accordo, dovevano raggiungere la
vicina Valle d'Intelvi nei pressi del confine italo-svizzero.

Un quinto ed ultimo punto di quel «qualcosa che riguardasse l'ordine
pubblico», per dirla con Romualdi, riguardava direttamente il Capo
del Governo della RSI, per cui secondo tale accordo: «Alcune
macchine avrebbero rilevato (sic!) Mussolini portando anche lui
nella zona neutra di Intelvi». (13)

Ricapitoliamo gli avvenimenti essenziali:

- alle ore 23 del 26 aprile, Romualdi si accorda in Prefettura per
la resa;

- alle ore 03 del 27 aprile, Pavolini parte per raggiungere
Mussolini;

- alle ore 03 del 27 aprile, Romualdi incarica i suoi delegati di
firmare la resa peraltro già concordata.

Si dovrebbe dunque ritenere che anche Pavolini fosse più o meno
invischiato nella faccenda, ma il suo successivo comportamento
smentirebbe tale ipotesi. Anzi, dalla dinamica degli avvenimenti, si
direbbe proprio che la partenza di Pavolini sia valsa solo a
sbloccare qualsiasi ritegno nel passare subito alla resa.
Probabilmente il segretario del PFR o era stato ingannato ovvero
nulla sapeva dei reali maneggi in corso a Como. Con tre autoblindo
in circa un'ora raggiunse Mussolini a Menaggio, per condividerne la
sorte fino in fondo. Considerato altresì il breve tempo in cui
Pavolini riuscì a raggiungere Mussolini ci si chiede -in modo
seppure accademico- quale problema avrebbe avuto l'intera colonna a
coprire lo stesso percorso? C'è poi da dire che Mussolini, dopo aver
ricevuto Pavolini, incaricò Vezzalini di tornare subito a Como con
due delle autoblindo di scorta a Pavolini, per organizzare
urgentemente una colonna di fascisti che avrebbe dovuto poi
raggiungerlo. È lecito pertanto affermare che gli «accordi»
intercorsi a Como non riguardavano Pavolini e contrastavano
apertamente con tutte le direttive del Duce.

Ma il particolare più interessante di tutto l'intrigo riguarda
l'identità -sorpresa finale!- delle persone con cui Romualdi
intavolò le trattative di resa. Guarda caso, i suoi referenti alla
Prefettura di Como erano rispettivamente il comandante di fregata
della Regia Marina, Giovanni Dessì, incaricato per l'Alta Italia del
SIM e il dottor Salvatore Guastoni del Servizio informazioni della
Marina Italiana ma dipendente diretto dell'OSS americano; ai due
emissari si era aggiunto il barone Sardagna, accreditato come
rappresentante ufficiale del gen. Cadorna. I primi due personaggi,
come già accennato, erano calati su Como dalla Svizzera già nella
mattinata del 26 ed erano evidentemente stati preavvertiti che
Mussolini aveva scelto quella città come base del ritiro in
Valtellina del Governo della RSI. Come non sospettare che tutto
fosse preordinato per l'eventuale resa, anche al fine di evitare più
inquietanti incognite?

Del resto solo così si può spiegare l'assurdo incagliarsi in quel di
Como, visto ormai come centro eletto di questa trama. Sarà una
coincidenza, ma, per quanto riguarda l'Italia, si scopre che le
forza più ideologizzate, quelle che più dovevano resistere fino
all'ultimo respiro, cioè le SS tedesche da una parte e le Brigate
Nere dall'altra, si arresero entrambe previo contatto e accordo con
i servizi segreti nemici. Insomma Romualdi come il gen. Wolff. E
bene gliene colse, dal momento che sia Wolff che Romualdi furono poi
trattati con particolare riguardo, avendo essi salva non solo la
vita, ma scontando solo simbolicamente una lieve pena, un
trattamento di tutto riguardo rispetto ai loro più sfortunati
subordinati.

In breve: dopo varie peripezie che impedirono perfino il previsto
concentramento in Val d'Intelvi e portarono alla prevedibile resa
senza condizioni dei fascisti concentrati a Como a partire dalla
stessa mattinata del 27 aprile, vi è solo da aggiungere che, mentre
i militi venivano uccisi o stipati nelle varie carceri, Romualdi
riusciva ad allontanarsi in borghese dalla Prefettura di Como
andandosene tranquillamente come se nulla fosse. Più tardi verrà
accusato dai camerati di essersi «involato da Como con la cassa del
PFR». (14) E d'altronde da qualche parte questa cassa del partito
deve essere pur finita, anche se l'argomento non è mai stato troppo
in auge come quello della consorella cassa del governo, finita nei
meandri di Dongo.

Gli è che, a differenza di Almirante che per sopravvivere in
clandestinità doveva piazzare saponette, Romualdi non sembra affatto
toccato da qualsivoglia problema economico. A Roma, dove si è presto
trasferito da Como, viene conosciuto nell'ambiente dei nostalgici
come Giuseppe Versari o più comunemente come il «dottore» e, per
prima cosa si fornisce di un suo organo di stampa. Nome del foglio
clandestino: "Credere", non a caso: una volta escluso dal trinomio
mussoliniano «obbedire» e rinunciato ovviamente a «combattere», non
restava che «credere» direttamente al «dottor Versari».

Per emergere nel magma neofascista di Roma, il «dottore», che farà
dell'ANTI-nostalgismo la sua nuova bandiera, per il momento la
bandiera -o più precisamente un lenzuolo tinto di nero- la farà
issare sulla Torre delle Milizie a Roma, nella ricorrenza del 28
ottobre '45. Altro colpaccio goliardico attribuito
all'organizzazione romualdiana è l'assalto alla stazione radio di
Roma IIIª a Monte Mario, con la messa in onda del disco
di "Giovinezza", seguito da un proclama.

Questa incursione era stata programmata per la notte tra il 28 e il
29 aprile, nel primo anniversario della morte di Mussolini, ma poi
si dovette rimandare di 24 ore. Infatti il turno successivo di
polizia si rivelò più propizio alle sorti dell'impresa, dal momento
che la "Celere", chiamata subito dopo l'irruzione neofascista,
sbagliò opportunamente strada arrivando sul luogo con circa un'ora
di ritardo. Se quasi nessuno fra la popolazione romana si accorse,
almeno di persona, dei fatti narrati, all'interno del mondo
neofascista le gesta ebbero notevole risonanza e ciò servì
egregiamente a Romualdi per farsi conoscere ed apprezzare. Solo più
tardi, quasi per chiedere venia di questi atti nostalgici, Romualdi
scriverà che tali azioni dimostrative -giacché quelle più serie
furono escluse o sabotate in partenza- erano finalizzate più che
altro ad aumentare la forza contrattuale dei neo-fascisti in merito
al problema dell'amnistia. (15) Come dire insomma l'omeopatia
applicata alla politica dove, con piccole dosi di tossine
nostalgiche, si mirava a debellare l'intossicazione antifascista. In
realtà Romualdi sfondava una porta aperta, quando si pensi che lo
stesso Parri, già nel '44, si poneva in prospettiva il problema
della «necessità di estirpazione non fittizia e non repressiva del
fascismo». (16)

I gruppi più o meno organizzati in clandestinità erano a Roma una
mezza dozzina mentre a Milano operava principalmente Leccisi con un
suo PDF (Partito Democratico Fascista). Non trovando una precisa
intesa fra loro, questi gruppi costituiranno un sedicente «Senato»
in cui confluiranno i vertici delle varie organizzazioni. Fra questi
non poteva mancare Romualdi, ma vi troviamo anche Pini, Pettinato,
Massi e in particolare il vecchio segretario del PNF caduto poi in
disgrazia e confinato, Augusto Turati.

Specialmente il Turati, contendeva a Romualdi la leadership del
neofascismo romano. Compito principale del «Senato» fu di prendere
accordi con tutti i partiti del CLN e con la Monarchia per trattare
una eventuale amnistia. Si è spesso sostenuto che fu Romualdi a
trattare direttamente con i rappresentanti politici dei vari
schieramenti interessati all'esito del referendum istituzionale, ma
ciò non è esatto. Anche Giuliana De' Medici nel suo libro "Le
origini del MSI" (17) scrive a pag. 35 che «fu appunto il "dottore"
a condurre le trattative con tutti i partiti del CLN», smentendosi
poi alla successiva pag. 97 quando riferisce che con i comunisti
trattarono invece Pini e Pettinato. In effetti il «dottore» contattò
lo schieramento di centrodestra e anche i socialisti, ma solo quelli
della fazione legata all'OSS (poi CIA), gli stessi cioè che poi, con
i fondi americani, organizzarono la scissione di Palazzo Barberini e
il nuovo partito socialdemocratico.

L'influenza soverchiante di Romualdi si svilupperà particolarmente
all'interno dei FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria), il nuovo
organismo sorto dopo il referendum istituzionale dall'unione dei
vari gruppi clandestini. Particolarmente illuminante ci appare il
programma stilato dai FAR. A parte un preambolo di princìpi pseudo-
rivoluzionari dove si afferma che: «Il Fascismo è solo contro il
mondo borghese, sia di destra che di sinistra, esso non può avere
alleati spirituali perché tutto ciò che non è prettamente ed
esclusivamente fascista è, in maniera automatica, antifascista», la
strategia dei FAR ci appare veramente antesignana di quello che sarà
in seguito l'essenza del MSI. Ecco alcune perle: «Nel secondo
periodo che va dal 25 aprile '45 al 2 giugno '46, e che è dominato
dal problema istituzionale, il Fascismo ha assunto per motivi
puramente tattici, un indirizzo prevalentemente monarchico». E poi
conclude con questa lungimirante iniziativa da «grande destra»: «...
abbiamo ridotto di metà i nostri nemici, non solo, ma contro l'altra
metà non siamo solo noi a combattere, perché ci possiamo valere di
quel 46 per cento che è rimasto deluso dal referendum».

Magari si potrebbe obiettare che se, puta caso, invece della
monarchia avessero puntato sulla svolta repubblicana, certamente più
congeniale ai reduci della RSI, si sarebbe potuto contare
addirittura sulla maggioranza del 54 per cento: un'area, questa, non
del tutto insensibile ai princìpi sociali fatti propri dall'ultimo
fascismo repubblicano. I FAR invece, quelli nati «contro il mondo
borghese sia di destra che di sinistra» programmavano la loro futura
azione rivoluzionaria con analisi di questo genere: «La lotta
politica non si potrà più mantenere sul piano parlamentare, ma
trascenderà in disordini di piazza, in violenze e in una tensione
generale. Le forze di destra, che hanno per caratteristica
distintiva una vigliaccheria congenita unita ad una sacrosanta paura
di perdere i loro privilegi, saranno alla ricerca disperata di una
forza qualunque capace di fronteggiare validamente l'estrema
sinistra. Quello sarà il nostro momento. Si tratta insomma di creare
nel paese una psicosi anticomunista tale da costringere tutti i
partiti ad appoggiare il Fascismo come il più dinamico dei movimenti
anticomunisti, così come già fecero i comunisti creando una psicosi
antifascista tale da costringere tutti gli ANTI-fascisti, anche di
destra, ad appoggiare il comunismo. (...) il Fascismo dovrà fungere
da massa d'urto dell'anticomunismo e la maggioranza degli italiani -
anche se non fascista- ci appoggerà, per odio al comunismo. Allora
si chiuderà il terzo periodo ed entreremo nella quarta fase,
caratterizzata dalla lotta contro la destra. In questa quarta fase
al Fascismo si proporrà la conquista integrale dello Stato». Il
programma dei FAR chiude il Manifesto programmatico con un finale
coerente con i suoi assurdi postulati: «La sorte del Fascismo, che
si era andata facendo sempre più precaria dai primi rovesci d'Africa
e d'Albania, fino a precipitare nelle giornate di fine aprile
del '45, ha cominciato a capovolgersi proprio da questa data». (18)

Le elezioni del '48 dimostreranno ampiamente che l'anticomunismo
fine a se stesso teorizzato dai FAR recherà vantaggi unicamente
alla «diga» democristiana, che infatti assorbirà, e in parte
definitivamente, i voti di milioni di ex-fascisti. Nonostante la
scelta del cavallo perdente, l'amnistia venne comunque subito dopo
il referendum per iniziativa del segretario del PCI e Ministro della
Giustizia, Togliatti, per cui circa trentamila fascisti uscirono
dalle carceri. L'aver quindi puntato sulla monarchia al fine di
ottenere l'amnistia o altro, si dimostrò in breve una doppia
sconfitta, politica e morale. Politica perché, escludendo eventuali
frodi elettorali, la scelta monarchica era in contrasto con la
tendenza popolare ma, soprattutto, con i presupposti fondamentali
della RSI. Morale, dal momento che l'amnistia venne quasi elargita
da una posizione di forza da parte di nemici in guerra e accesi
avversari in politica.

Se molti fascisti potevano uscire dalle carceri come dalla
clandestinità, su Romualdi permaneva la solita condanna a morte
pronunciata dalla C.A.S. di Parma che non era amnistiabile. Fra
l'altro la questione della condanna a morte che pendeva sulla testa
del «dottore» fa intendere con quale spirito poteva condurre le
trattative una persona che i suoi interlocutori potevano consegnare
in qualsiasi momento al boia per essere giustiziato. Una tal
controparte era evidentemente esposta a qualsiasi ricatto o
imposizione. Pertanto il fatto che Romualdi sia stato lasciato
libero di agire addirittura protetto, se non foraggiato, dimostra
che il personaggio in questione era particolarmente funzionale ai
disegni politici dei suoi interlocutori, i quali, in caso contrario,
non gli avrebbero permesso di capeggiare una formazione clandestina
e sedicente rivoluzionaria. Vedremo infatti che i «rivoluzionari»
dei FAR più che minare il sistema ciellenista, erano orientati a
sovvertire le idee del fascismo. All'interno dei FAR, tuttavia, si
erano delineate tre tendenze:

- rimanere in clandestinità;

- infiltrarsi in altri partiti per condizionarli dall'interno;

- formare un movimento politico legale.

Se queste erano le possibili strategie, sul piano teorico i FAR
erano divisi in due fazioni sul tipo delle odierne correnti. Da una
parte gli integralisti fedeli agli ideali del fascismo e della RSI
in particolare; dall'altra i pragmatici, i quali, preso atto del
nuovo quadro politico, cercavano una strategia per inserirvisi. I
più integralisti erano tendenzialmente per la lotta clandestina,
mentre i pragmatici volevano uscire al più presto alla luce del sole
con un loro movimento politico.

Fra queste due ali, la posizione intermedia era occupata dai meno
schierati, più favorevoli alla tecnica infiltrativa per condizionare
le altre forze politiche, mantenendo però inalterati i vecchi
ideali. Gli ortodossi si riconoscevano nell'ex-federale della RSI a
Roma, Pizzirini, i pragmatici facevano capo a Romualdi, mentre
Turati saltellava qua e là al solo scopo di consolidare la sua
posizione personale. Curiosamente, Mario Tedeschi, affiliato ai FAR
e seguace del «dott. Giuseppe», nel suo libro di memorie "Fascisti
dopo Mussolini" divide le due citate linee politiche fra «utopisti»
e «rivoluzionari», dove naturalmente i «rivoluzionari» sono i
seguaci di Romualdi mentre gli «utopisti» sono «quelli legati a
dogmi o folli speranze». E scendendo ai particolari,
aggiungeva: «Gli utopisti sembravano credere che le idee e le
impostazioni in materia di politica estera e sociale intorno alle
quali l'attenzione italiana si era polarizzata per vent'anni,
sarebbero tornate d'attualità sol nel momento in cui fosse stato
raggiunto il primato delle fazioni cui esse erano legate. I loro
oppositori, i rivoluzionari, fautori d'un intervento immediato erano
invece convinti della assoluta validità delle loro idee anche in
quel mondo che era nato dalla sconfitta».

La classificazione di Tedeschi non induca a pensare che l'opera dei
cosiddetti «rivoluzionari» tendesse in qualche modo a sovvertire,
magari con la forza, quel mondo che era nato dalla sconfitta». Egli
infatti poco oltre puntualizzava che «l'organizzazione (dei FAR)
disponeva di clandestini che non avevano il coraggio di riconoscersi
sovversivi». (19) Infatti, mentre la «volante rossa», dopo aver
identificato il responsabile dei FAR per la Lombardia nell'ex-
generale della Milizia Ferruccio Gatti, provvedeva alla sua
soppressione, i FAR si scatenavano facendo esplodere bombe carta
tipo castagnole e tric e trac. Eppure le intenzioni rasentavano
quasi la megalomania, quando si pensi che la organizzazione
paramilitare dei FAR si era denominata Esercito Clandestino
Anticomunista. In realtà si dimostrò l'esercito più pacifico del
mondo, se è vero, come è vero, che non fece una sola vittima,
neppure per errore,

È un fatto che dopo essere stati massacrati in guerra, ma
soprattutto dopo, nei modi più barbari e inumani a decine se non a
centinaia di migliaia, in tutto il dopoguerra non si conta fra gli
uomini fascisti un solo gesto clamoroso di replica. Abbiano
specificato «uomini fascisti», perché da parte femminile vi furono
in effetti alcuni sporadici casi di decisa reattività, come nel caso
di Maria Pasquinelli, che uccise a Trieste il rappresentante inglese
d'occupazione, o di un'altra donna di cui ci sfugge il nome, che
vendicò la madre uccisa davanti ai suoi occhi, sparando al colpevole
diventato frattanto sindaco del suo paese.

Si è spesso affabulato di «stragismo nero», quando Walter Audisio -
fosse o meno il vero responsabile della morte di Mussolini- visse
fino all'ultimo tranquillamente senza scorta, inserito perfino
sull'elenco del telefono e quindi chiunque avrebbe potuto
raggiungerlo. Parlare di «rivoluzionari» appare decisamente
eccessivo. L'intenzione magari c'era, ma tra il dire e il fare ...
Un giorno i FAR decidono di far saltare il palazzo sede del PCI in
Via delle Botteghe Oscure. Si procurano perfino 30 chili di tritolo,
ma poi l'impresa sfuma perché non si trova il modo di trasportare
l'esplosivo e d'altra parte rubare un'auto esulava dai loro sani
princìpi. Del resto quando non interveniva l'etica, suppliva la
delazione. Capita infatti che, a seguito della condanna a morte
pronunciata in Tribunale contro l'ex-federale di Alessandria, i FAR
decidano il rapimento del ministro di Grazia e Giustizia, il
liberale Giuseppe Grassi, per chiedere poi, se non lo scambio,
almeno l'annullamento o la sospensione della pena capitale.
Sennonché, pochi giorni prima dell'azione, la polizia debitamente
preavvisata operava una serie di arresti all'interno dei FAR. Si è
sempre sospettato che la delazione provenisse da Tedeschi (20), ma
il segretario di Romualdi al tempo della clandestinità, Luigi
Battioni, si è dichiarato convinto che la «soffiata» fu opera di
Romualdi stesso che così, a dire del Battioni, intendeva forzare gli
integralisti ad uscire dalla clandestinità. (21)

Ma nemmeno questa manovra -se tale era l'intenzione-si dimostrò
sufficiente a smuovere gli integralisti e per questo motivo si
arrivò alla scissione. La notte del 25 luglio '47 (potenza delle
date), il gruppo «rivoluzionario» già messo in minoranza all'interno
del Direttorio Centrale, abbandonava l'organizzazione. I rimanenti,
seppure scombussolati dalla scissione e dalla repressione
poliziesca, reagivano con la dichiarazione del 4 agosto '47, in cui
fra l'altro si inneggiava alla futura seconda Repubblica Sociale.
Contemporaneamente alla permanenza nei FAR, Romualdi e altri come
Turati lavoravano già da tempo al progetto del partito politico. Ciò
faceva parte delle varie e possibili opzioni, che spaziavano dalla
legalità fino all'esercito clandestino, solo che il Re ne avesse
cercato l'aiuto. L'ipotesi del partito inserito nel nuovo sistema
era del resto assai cresciuta specie dopo i vari contatti
referendari con gli esponenti ufficiali del centrodestra.

Prima ancora dell'esito del referendum istituzionale, Turati e
Romualdi avevano incontrato a Roma il maggior esponente del
neofascismo clandestino milanese, Domenico Leccisi, con cui
intavolarono fin da allora un inquietante discorso. Questo incontro-
scontro è così riportato nelle memorie di Leccisi: «A Roma si
facevano molte chiacchiere da parte di Romualdi e dei suoi amici.
Per la vicinanza con i centri di potere e la fitta rete di contatti
stabilita con molti ex-fascisti -che avevano tempestivamente
cambiato casacca e continuavano ad operare all'interno dei partiti-
il gruppo degli ex-gerarchi che facevano capo ad Arturo Michelini,
nello studio del quale in Viale Regina Elena s'incontravano, aveva
potuto intavolare trattative sia con esponenti repubblicani, sia con
ambienti monarchici. Per questo avevo deciso di raggiungere la
capitale e rendermi conto di persona della situazione. (...) La
situazione mi si rivelò in tutti i suoi aspetti soltanto quando
condotto da Michelini e Romualdi, mi trovai faccia a faccia con il
redivivo ex-segretario del PNF, Augusto Turati».

Secondo l'impressione ricevuta da Leccisi, in quel periodo era
proprio Turati che «... menava la danza e che sia Michelini che
Romualdi pendevano dalle sue labbra». Ciò dovette apparirgli
piuttosto strano, dal momento che Turati, a parte i precedenti, si
era perfino rifiutato di aderire alla RSI. Inoltre Leccisi fa
presente che proprio Turati in precedenza «... si guadagnò la fama
di "normalizzatore" e di grande epuratore dei ranghi dello
squadrismo. Si disse che centomila fra squadristi e ribelli al nuovo
corso (seguito alla fine della segreteria di Farinacci - N.d.R.) -
che esigeva il rientro nella disciplina all'interno del partito e
nella vita civile- e fascisti, non prontamente allineatisi alla
direttiva del momento, furono allontanati o espulsi, per volontà di
Turati, il quale aveva pure imposto la subordinazione dei segretari
federali ai prefetti». Caduto poi in disgrazia durante il regime e
confinato in Egeo, Turati era rimasto pieno di risentimento, specie
contro Mussolini, da lui definito «... un cinico ... un prodigioso
istintivo senza la preparazione necessaria per essere il capo di una
Nazione».

Avendo dunque presenti questi precedenti dell'ex-segretario del PNF,
Leccisi si dispose ad ascoltarlo con le riserve del caso ed infatti
i suoi argomenti si dimostrarono subito sospetti. Quale preambolo
Turati pose il problema politico dell'inserimento nella legalità,
per consentire «... la nostra partecipazione, di pieno diritto, alla
vita democratica del Paese ... e, a quel punto la rinuncia
dell'aggettivo "fascista" sarebbe stata una scelta obbligata e
conseguenziale». Turati, continuando nella sua esposizione precisò
che l'orientamento a consentire la costituzione di un movimento
politico che raccogliesse gli ex-fascisti e coloro che ne avevano
accettato il programma, beninteso restando nell'alveo democratico,
si stava facendo luce presso alcuni uomini politici come De Gasperi
e i notabili democristiani, con l'appoggio dei liberali,
qualunquisti e monarchici. Anzi con questi ultimi il dialogo era in
fase avanzata essendo disposto il Re a offrire determinate garanzie
non solo riguardanti il provvedimento di amnistia, in cambio di un
appoggio, se del caso anche armato, dei gruppi fascisti alle forze
monarchiche impegnate in uno scontro durissimo contro le sinistre».
Turati poi concluse che «... per rendere fattibile il compromesso
con il governo (e si trattava del governo del CLN ! - N.d.R.) e
facilitare l'intesa con il Re era necessario smobilitare i gruppi
clandestini armati, apprestandoci a far affluire gli ex-fascisti in
un movimento politico in grado di svolgere la propria attività alla
luce del sole nella legalità democratica».

Nutrendo qualche perplessità in merito, Leccisi provò a ribattere
che prima di smobilitare dalla clandestinità pretendeva garanzie che
non si trattasse dell'ennesima fregatura. «L'imprevidenza -disse a
gran voce all'ex-segretario del PNF- c'era costata sangue e
sofferenze inenarrabili. Ricadere nell'ingenuità di credere nella
buonafede degli avversari potrebbe avere conseguenze ancora una
volta gravissime per il movimento e per quanti ci seguono». Turati
reagì vivacemente a queste obiezioni e con tono autoritario gli
notificò che da quel momento egli rispondeva direttamente a lui e a
un non ben precisato gruppo dirigente istallatosi a Roma, delle sue
azioni. Leccisi prese cappello e se ne andò insalutato ospite. (23)

A nostro parere quanto esposto da Leccisi fotografa un istante
particolare di tutte le varie acrobazie politiche effettuate da
Turati nel dopoguerra; che si possono così riassumere:

Inizia cercando di avvicinarsi, inutilmente, al partiti del CLN.
Dopo di che prende posizioni di sinistra all'interno dei FAR e,
contemporaneamente, si collega al Movimento Tricolore per spingere i
suoi aderenti a mettersi al servizio dei circoli dinastici e dei
generali badogliani. Dopo l'uscita di Romualdi dai FAR, non avendo
ottenuto un posto adeguato nel MSI, Turati si pone alla testa del
gruppo dissidente dei FAR. (24) Concluderà la sua carriera negli
anni '50 al servizio di Gedda e dei suoi Comitati Civici. (25)

Dunque, parallelamente ai FAR, si andava coltivando l'opzione
legalitaria del Movimento politico. Nel novembre '46 si erano
incontrati a Roma vari esponenti fascisti per vedere di concordare
una linea comune; l'iniziativa fallì più per i persistenti
personalismi che per contrasti di natura politica. Il 3 dicembre
successivo s'incontrarono l'ex-deputato Biagio Pace, il direttore
del periodico "Rivolta Ideale" Giovanni Tonelli, Romualdi e
Michelini. Sono costoro che riescono a concordare il documento
comune in cui si auspica la nascita di un «organismo politico
nazionale» con la denominazione di Movimento Sociale Italiano
(MO.S.IT).

La sigla MO.S.IT. oggettivamente richiamava più alla memoria una
S.r.l. che non un partito politico ed evidenziava anche una certa
preoccupazione nell'esporsi con sigle evocanti il passato: il più
diretto e decifrabile MSI parve infatti un po' troppo assonante sia
con Mussolini che con la RSI.

Bisogna tener conto che all'epoca vigeva il decreto luogotenenziale
16 aprile '45, a ricordo della monarchia, che comminava gravi
sanzioni penali -fino a 20 anni- per qualsiasi tentativo di
ricostituzione del PNF. (25) Ciò comportava che l'attività
neofascista dovesse necessariamente attuarsi in clandestinità o per
mezzo di gruppi politici che venissero quanto meno tollerati.

Il documento stilato il 3 dicembre contava dieci punti programmatici
molto generici, salvo un esplicito richiamo (punto 8) ai princìpi
della socializzazione (compartecipazione dei lavoratori alla
gestione delle aziende e alla ripartizione degli utili), mancando
necessariamente qualsiasi accenno al fascismo. (26) Tra il 3
dicembre e il 26 dello stesso mese, data ufficiale di nascita del
MSI, altre firme si aggiunsero al documento, mentre alcune vennero
ritirate. Vi è comunque da dire che per diversi mesi, almeno per
tutta la prima metà del '47, il MSI restò del tutto inoperante, un
recipiente vuoto, una opzione potenziale e alternativa ad altre
ipotesi come l'intervento armato a fianco di circoli militari
reazionari.

In questo intermezzo il MSI non ebbe neppure un segretario
nazionale, ma solamente il responsabile di una non ben identificata
Giunta esecutiva nazionale, nella persona di tale Giacinto
Trevisonno. (27) Almirante fu infatti designato segretario del MSI
solo «... nel maggio-giugno 1947». (sic!) (28)

La pausa si rendeva necessaria per indurre i recalcitranti FAR ad
optare per la legalità, ma anche per superare i contrasti sulla
designazione del vertice. È chiaro infatti che il potere politico
avrebbe tollerato o agevolato l'iniziativa solo nel caso in cui i
responsabili del nuovo movimento fossero stati in grado di
assicurare una linea di destra, espressione di un anticomunismo di
servizio. Ma nell'immediato Romualdi e Turati, che pure si erano
perfettamente subordinati a questo aut-aut, non potevano essere
utilizzati, dal momento che uno era condannato a morte e l'altro
penalizzato per aver ricoperto la carica di segretario nazionale del
PNF. C'era inoltre la lotta interna fra i due per la supremazia e i
loro veti incrociati si elidevano a vicenda.

In questa situazione riuscì ad affermarsi Giorgio Almirante, allora
tanto sconosciuto e insignificante da non essere neppure ricercato
come ex-funzionario della RSI. In tutti i casi Almirante si era dato
ad una volontaria latitanza, rimanendo in apnea a Milano fino al
varo dell'amnistia. Al Nord era stato ospitato da un certo Levi, che
durante la RSI Almirante aveva a sua volta nascosto «... sotto falso
nome, mentendo persino al Ministro (Mezzasoma - N.d.R.) nella
foresteria del Ministero». (29) Reso più audace dall'amnistia di
Togliatti, Almirante con Baghino e pochi altri elementi, andò a
formare il Movimento Italiano di Unità Sociale (M.I.U.S.), che al
momento buono gli servì da trampolino per approdare alla segreteria
del neonato MSI. Il suo compito era in realtà quello di tenere in
caldo la poltrona per le altre «personalità» che nel frattempo
stavano sbrigando altri problemi.

Nell'autunno di quello stesso anno a Roma si dovevano tenere le
elezioni amministrative e nell'occasione il MSI decise di
parteciparvi con una propria lista. Giovandosi, seppure in misura
limitata, della crisi che aveva investito il movimento qualunquista,
il MSI con circa il 4% dei voti riuscì a conquistare 3 seggi al
Comune di Roma. L'apporto di questi seggi fu determinante per la
creazione di una giunta di centrodestra (41 seggi contro 39) che
sarà guidata dal democristiano Rebecchini.

All'interno del MSI, discretamente corroborato dall'affermazione
elettorale, si coagularono ben presto due tendenze:
la «socializzatrice», che faceva riferimento alle esperienze
rivoluzionarie di sinistra della RSI e la «corporativa», che
prediligendo invece la collaborazione sociale tra le classi si
poneva in una posizione più duttile e assai meno radicale. Almirante
si presentava (in privato) come l'alfiere dell'integralismo sociale;
per questo motivo venne attaccato da Romualdi, che lo accusava
inoltre di gestire il partito allo scopo di «... farne un feudo per
le sue ambizioni». (30)

Dopo lo scontro con Almirante, il 17 marzo '48, Romualdi venne
arrestato, sembra su delazione, nei pressi del giornale
fiancheggiatore del MSI "Ordine Sociale". A questo proposito il
Murgia scrive: «Subito, negli ambienti del rinascente partito, si
sparge la voce che a fare la spiata alla polizia sia stato lo stesso
Almirante, e la voce non si spegne tanto facilmente. Ad alimentarla
ancor più vengono le indiscrezioni sussurrate a mezza voce
dall'Ufficio politico della Questura: il Romualdi, malvisto dagli
stessi fascisti, è cascato nella rete dietro una denuncia degli
stessi suoi camerati». (31) Ciò era plausibile poiché la polizia ben
poco si era attivata autonomamente alla ricerca di Romualdi.

Sono peraltro noti i rapporti diretti fra il Viminale e gli
organizzatori del MSI tramite il generale dei carabinieri Giuseppe
Pièche, ex-capo della 3ª sezione del SIM e, nel dopoguerra,
incaricato da Scelba di riorganizzare i servizi segreti italiani.
Per copertura, il generale Pièche era stato messo a capo della
Protezione civile e dei servizi antincendio del ministero
dell'Interno. Occorre tener presente che la protezione civile era
stata progettata inizialmente come un corpo civile speciale da
utilizzare in caso di guerra o calamità naturale, con l'intento
abbastanza scoperto di usare questa struttura anche contro la
sovversione comunista tramite una progettata rete di super-prefetti
i quali, a tempo debito, avrebbero accentrato ogni potere nella zona
di competenza. Tutti i membri della Protezione civile avrebbero
costituito all'occorrenza una forza organizzata, da utilizzare in
caso di pericolosi tumulti di piazza o spinte rivoluzionarie. Tale
iniziativa, bocciata dal Parlamento, venne sostituita
dall'organizzazione segreta "Gladio" nei primi anni '50. (32)
Paradossalmente, ma non troppo, si potrebbe perfino dire che la
fiamma del MSI venne appiccata dal servizio antincendio del
ministero dell'Interno.

Ora, indipendentemente dal fatto che Romualdi abbia avuto più o meno
rapporti diretti con il Viminale che di fatto lo proteggeva, c'era
sempre la possibilità -siamo nella Roma degli anni '40- d'inciampare
accidentalmente in una delle tante retate organizzate contro la
malavita e i mercati della borsa nera. In questo caso Romualdi
veniva preavvisato delle incombenti incursioni poliziesche tramite
una signora parmigiana, Mina Magni Fanti, residente a Roma in Via
dei Riari, la quale a sua volta riceveva apposita segnalazione
direttamente dal deputato di Parma alla Costituente e successivo
Ministro della Marina, il democristiano e vetero antifascista
Giuseppe Micheli. (33)

In tutti i casi l'arresto di Romualdi avviene solo quando il compito
di costituire un partito legale di neo-fascisti era cosa ormai fatta
e quindi al «dottore» spettava comunque il giusto compenso. Per
cominciare il processo a carico di Romualdi fu affidato in sede
giudicante al padre del noto dirigente del MSI, Mario Cassiano.
Accade anche che l'imbarazzante teste a carico, il capitano della
B.N. di Parma Egisto Maestri, una volta trasferito da Porto Azzurro
a Roma in vista del processo, muoia in cella in seguito a collasso
cardiaco. A rompere le scatole ci si mise però il patrono di parte
civile, Avv.. Sotgiu, il quale tanto fece che riuscì a far
trasferire il processo ad altra sede, avendo evidenziato la sintonia
politica che univa il Presidente del Tribunale all'imputato. Dopo
una fase interlocutoria al foro di Milano, il 23 maggio '51 il
Tribunale di Macerata assolveva con formula piena da ogni accusa
Pino Romualdi. (34)

Fondamentali ai fini dell'assoluzione si dimostrarono le
testimonianze a suo favore di Gianni Nadotti, agente del SIM
badogliano, nonché del cappellano partigiano Don Guido Anelli. Tanto
per rimanere in tema, Don Anelli si presentò alla Corte di Macerata
come persona informata dei fatti nella sua qualità di agente
dell'OSS operante a Parma. Circa la rappresaglia del 1 settembre in
Piazza Garibaldi a Parma, Don Guido Anelli scaricò ogni
responsabilità sulle spalle dei Tedeschi, che in tal modo «...
volevano incutere terrore alla popolazione e ai partigiani». (35)

C'è da dire che effettivamente la strage in questione è sempre stata
avvolta nel mistero, sia nella sua dinamica sia rispetto alle
dirette responsabilità; questo perché la rappresaglia venne attuata
in piena notte con la città deserta per il coprifuoco, sicché, a
parte un caso inaspettato, non vi furono testimonianze dirette
dell'accaduto e dell'identità dei partecipanti. Anche chi scrive,
avendo presa per buona la testimonianza del prete partigiano, difese
ripetutamente in pubblicazioni locali e su giornali cittadini la
figura di Romualdi, indicato come il responsabile dei fatti
nonostante la sentenza assolutoria. È però di pochi mesi fa una
scoperta che rimette tutto in discussione. Sono stato infatti
contattato da un ex-milite della RSI che nella fatidica notte della
rappresaglia si trovava casualmente presso il comando della B.N. di
Parma. Questo testimone, che visse tutto lo svolgersi degli
avvenimenti, ammette francamente la responsabilità della B.N. di
Parma nelle esecuzioni, che, essendo state eseguite con il colpo
alla nuca, potevano far pensare ai più sbrigativi metodi tedeschi.

Quella sera Romualdi non era presente nella sede della B.N.;
tuttavia si fece vivo al telefono conversando pure con il teste
suddetto del cui padre era amico. Proprio mentre Romualdi
telefonava, erano in corso i preparativi per i «processi» di ogni
singolo giustiziando, sicché appare impossibile che il tutto sia
avvenuto a sua insaputa o addirittura contro le sue disposizioni. In
tutti i casi, fosse o meno d'accordo sulle esecuzioni, rimane il
fatto che Romualdi, in quanto Comandante della B.N. di Parma, aveva
comunque una responsabilità oggettiva riguardo all'operato dei suoi
uomini. E poi, quale subalterno avrebbe potuto decidere una cosa
così grave come la più pesante rappresaglia fascista eseguita a
Parma? Non risulta che nessuno sia stato punito o allontanato dal
Corpo delle B.N. per questo fatto. Si può dunque concludere che la
testimonianza del prete partigiano assume valenze troppo di favore,
anche perché la precedente Corte di Milano aveva già escluso quella
pena di morte che sola poteva giustificare una falsa testimonianza
da parte di un prete, sebbene partigiano nonché agente
dell'intelligence americana.

Ugualmente sospetta risulta la testimonianza in suo favore
dell'agente del SIM Gianni Nadotti. Al suo ex-segretario Battioni,
che gli chiedeva la ragione dei suoi ottimi rapporti con
il «traditore» Nadotti, Romualdi rispondeva che in fin dei conti
l'agente del SIM «aveva fatto il suo gioco». (36)

Tenuto conto dei precedenti, per quanto ci riguarda incliniamo a
credere che Romualdi sia stato invece ripagato dai vari servizi
segreti italiani e stranieri, per il suo operato sia durante
l'ultima fase della RSI che successivamente. La nascita del MSI
ottemperava infatti alle strategie politiche interne e a quelle
connesse alla spartizione dell'Europa. In campo interno si
rafforzava la posizione centrista del governo De Gasperi; ponendosi
alla sua destra, il MSI garantiva alla DC la lucrosa politica
dei «due forni» enunciata da Andreotti. Nel contempo veniva
eliminato il fascismo clandestino e in tal modo i neofascisti
potevano essere controllati ed eventualmente ingaggiati per bassi
servizi. Nel quadro internazionale si dovevano poi convertire gli ex-
«repubblichini» alle posizioni filo-atlantiche di supporto della
NATO, facendo loro accantonare -e poi dimenticare- l'originale
pregiudiziale ANTI-plutocratica; e ciò in nome di una Patria (che
non era più la loro) da proteggere dal comunismo, peraltro già
escluso dal potere in Italia in virtù degli accordi di Yalta.

Queste tesi del resto non sono nuove, essendo già state enunciate
per esempio dal redattore di Radio Milano durante la RSI, Fausto
Brunelli, che già negli anni '50 scriveva: «Il CLN, anzi i partiti
anticomunisti del CLN, avevano creato il MSI per due motivi ben
precisi: 1) per eliminare il fascismo clandestino giacché se le
masse ex-RSI si fossero inalveate in esso, se fossero esistiti
cospicue forze politiche clandestine, la democrazia si sarebbe
trovata in crisi; 2) per inserire i fascisti ex-RSI nel fronte
anticomunista prima che i partiti della estrema sinistra, per
accaparrarseli avanzassero ad essi qualche offerta degna di
considerazione. Si mirava così ad inalveare le forze ex-fasciste
entro il gioco politico democratico ed a tenerle prigioniere in esso
fino alla loro liquidazione, si mirava a sviare il carattere vero
del fascismo, parimenti avverso alla plutocrazia ed al comunismo,
alle potenze occidentali ed all'URSS e formando un neofascismo ad
intonazione solo anticomunista e quindi non più bandiera della lotta
per l'indipendenza nazionale dalle ingerenze della Gran Bretagna e
degli USA». (37)

Bisogna peraltro considerare che la DC e gli altri partiti di
governo si erano cautelati nei confronti del MSI, che, nato da
ricatti e blandizie, non doveva uscire dal suo alveo specificamente
anticomunista. La «legge Scelba» contro la ricostituzione del PNF
dava infatti facoltà al Governo -più che alla magistratura- di
sciogliere eventuali movimenti d'intonazione neofascista. A maggior
ragione il MSI è sempre vissuto in libertà vigilata e con la
condizione di dover ottemperare al ruolo assegnatogli nel gioco
delle parti, pena l'eventuale scioglimento e la conseguente
drammatica perdita di posizioni nel Parlamento e negli Enti Locali.
La successiva «legge Mancino» ha ulteriormente allargato il raggio
d'azione e di discrezionalità nei confronti di «fascisti» non
omologati -o non omologabili- dall'attuale sistema politico. Vi è
una curiosa costante nella strategia del potere politico in Italia,
che tende da una parte a condizionare con leggi speciali la «destra»
più o meno neofascista, mentre alla «sinistra» si preferisce opporre
una strategia basata sulla reazione controrivoluzionaria («Rosa dei
Venti», «Gladio», ecc.).

Fino ai nostri giorni tali manovre sono perfettamente riuscite,
anche perché sedicenti «neo-fascisti» hanno sempre appoggiato le
trame più reazionarie del potere nei confronti dell'estrema
sinistra, così come quest'ultima ha sempre collaborato ad inasprire
le leggi liberticide nei confronti del neofascismo.

Franco Morini

(1) Testimonianza resa allo scrivente dall'ex-segretario del
Federale di Reggio Emilia, Dante Scolari.

(2) P. Romualdi "Scovarli" in "Gazzetta di Parma" del 29 gennaio '44
e sempre di Romualdi "Capitalismo alla sbarra" in "Gazzetta di
Parma" del 20 febbraio '44 e "Certa borghesia" in "Gazzetta di
Parma" del 18 marzo '44.

(3) Relazione autografa sull'attività svolta dal ten. Nadotti
Giovanni nel periodo marzo '44 - maggio '45 (arch. M'orini).

(4) Denuncia cr/Sc del 43° C.M.P. del 14/4/45, indirizzata al
Tribunale Militare di Guerra - Sez. del 202° Comando Militare
Regionale di Brescia (arch. M'orini).

(5) Di questo memoriale ho ricevuto copia fotostatica dall'originale
da parte del prof. Marino Viganò, già curatore delle memorie postume
di Pino Romualdi edite con il titolo di "Fascismo Repubblicano",
Varese, 1992. Si deve rimarcare che, fatto strano, le memorie dello
Scandaliato nel succitato libro sono state epurate proprio della
parte di cui sopra senza peraltro segnalarlo al lettore (in op. cit.
pag. 216).

(6) P. Romualdi "Fascismo Repubblicano", op. cit., pag. 172.

(7) Cfr. G. Bianchi-F. Mezzetti "Mussolini, aprile '45: l'epilogo",
Novara, '85, pag. 34.

(8) P. Romualdi "Cronaca di due giorni", in "l'Italiano" n° 4,
aprile '60.

(9) P. Romualdi, art. cit., in "l'Italiano", pag. 39.

(10) B. Spampanato, "Contromemoriale", Roma, '52 - 3° vol. (Il
segreto del Nord), pag. 134.

(11) P. Romualdi, art. cit. in "l'Italiano", pag. 37.

(12) P. Romualdi, ibid.

(13) M. Caudana, op. cit., pag. 698

(14) P. G. Murgia, "Ritorneremo!", Milano, '76, pag. 281.

(15) P. Romualdi, "Il 18 brumaio dell'On. De Gasperi"
su "l'Italiano" n° 8, '59.

(16) F. Parri, "Due mesi con i nazisti", Roma, '73, pag. 23.

(17) G. De' Medici, "Le origini del MSI", Roma, '86.

(18) Cfr. M. Tedeschi, "Fascisti dopo Mussolini". Roma, '50, pp. 102-
107.

(19) M. Tedeschi, op. cit., pp. 119-121.

(20) Secondo Tedeschi l'operazione di pubblica sicurezza contro i
FAR era da attribuire ad infiltrazioni ad opera di comunisti e
polizia - op. cit. pp. 169-171.

(21) Testimonianza resa da Luigi Battioni, ex-segretario di Romualdi
nel periodo clandestino.

(22) Cfr. D. Leccisi, "Con Mussolini prima e dopo piazzale Loreto",
Roma, '91, pp. 304-310.

(23) P. G. Murgia, op. cit. nota n° 4, pp. 299-300.

(24) P. G. Murgia, op. cit. nota n° 4, pp. 296-297

(25) R. Comini-G. Rabaglietti, "Le leggi dell'Italia libera",
Bologna, '45, pag. 206.

(26) I Consigli di gestione delle aziende socializzate sopravvissero
alla caduta della RSI fino a quando, il 6 dicembre 1945, un accordo
stipulato fra CGIL e Confindustria stabilì che, in cambio di alcuni
miglioramenti e l'istituzione della scala mobile, i Consigli di
gestione venivano aboliti.

(27) Cfr. G. De' Medici, op. cit., pag. 61.

(28) Cfr. G. De' Medici, op. cit., pag. 61.

(29) G. Almirante, "Autobiografia di un fucilatore", Milano, '74,
pag. 133.

(30) P. G. Murgia, op. cit., pag. 99.

(31) P. G. Murgia, op. cit., pag. 100.

(32) F. G. Murgia, "Il Vento del Nord", Milano, '75, pag. 295; dello
stesso A., "Ritorneremo!", cit., pp. 188-189. Si veda inoltre C. De
Lutiis "Il lato oscuro del potere", Roma, '96, pp. 25-29.

(33) Testimonianza di Luigi Battioni, cit.

(34) "L'assoluzione del Romualdi richiesta dalla pubblica accusa",
in "Giornale dell'Emilia" del 24 maggio '51.

(35) "Testi a discarico nel processo Romualdi", in "Giornale
dell'Emilia" del 17 maggio '51.

(36) Testimonianza di Luigi Battioni, cit.

(37) F. Brunelli, "La crisi del MSI e delle altre destre".
Roma, '56, pag. 105.
 
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